I MEDITAZIONE DI AVVENTO
Is 63,16-17.19; 64,2-7
Qualche domenica fa abbiamo ascoltato la parabola delle dieci vergini, cinque stolte e cinque sagge, tutte senza distinzione che nell’attesa dello sposo si addormentano. A mezzanotte si alzò un grido che le svegliò. Nella vita il sonno prende sempre il sopravvento, prevale per tutti. Anche per noi oggi; per questo la Liturgia ci offre nel Profeta Isaia quel grido che ci desta, che ci sveglia dal nostro sonno. Ci risveglia perché si rinnovano le promesse, si rinnova la sicurezza, la certezza che Dio viene, il Signore viene, è qui.
In questo avvento vorremmo, insieme, lasciarci destare da questo grido, da questo grido potente che la liturgia ci offre ogni anno. Abbiamo bisogno di un annuncio per metterci in attesa, per raccogliere una nuova venuta del Signore.
Quella proposta nella prima domenica del tempo di Avvento è una pagina che probabilmente risale all’inizio dell’esilio del popolo di Israele. Una condizione quella che Israele sta vivendo, che riconosce essere frutto anche delle sue scelte. E’ fuori dalla terra, dalla Terra promessa, ha perso la libertà donata, guadagnata con l’esodo.
Di fatto, questa situazione è ciò che si è causata e si è determinata perché il popolo si è allontanato dall’alleanza, ha servito gli idoli, si è nutrito di ribellione.
Facendo memoria però degli interventi di Dio il popolo osa chiedere un suo nuovo intervento, una sua nuova manifestazione potente.
Ecco allora quel grido, quella invocazione: “ritorna!” E’ il verbo della conversione, è il verbo appunto che invita a volgersi dall’altra parte, a cambiare, a volgersi di nuovo.
Perché altrimenti – riconosce il popolo – noi paghiamo, perché altrimenti si indurisce il nostro cuore. “Ritorna, ritorna per amore!. Avresti mille motivi, mille ragioni per abbandonarci a noi stessi. Da te non possiamo pretendere nulla, vista la considerazione che abbiamo avuto di te, della tua Parola, della tua alleanza”.
“Finché le cose ci andavano bene Ti abbiamo riservato uno spazio. Sempre più marginale, un contentino oggi, un pensiero domani”.
E la profezia che abbiamo ascoltato è accompagnata da una ripetizione all’inizio e alla fine. C’è una stessa frase che ritorna e che è la chiave per comprendere questa profezia: “Ma tu sei Nostro padre! Ti riconosciamo Nostro padre. Su questo noi contiamo”.
Qui abbiamo legato la nostra speranza, cioè che: “il tuo cuore sia abitato da un amore gratuito, sia abitato da una cura paziente, ti chiediamo di mostrarci la tua paternità”.
Desidero o Signore, desidero io, lo desideriamo ciascuno di noi con forza che il calore del tuo amore mi raggiunga, ci raggiunga! E ci faccia sentire che sono figlio, che sono figlia. Ti permetto di amare.
E l’immagine del padre è unita a quella del vasaio. L’artigiano dalle mani esperte. E se il padre richiama l’origine dell’esistenza, il vasaio dice il lavorio della paternità; la sua opera è frutto di un lungo e impegnativo lavoro. Noi siamo argilla e tu colui che ci plasma. Tutti noi siamo opera delle tue mani. Tutti noi, non solo io. Anche chi mi è accanto è frutto delle mani di Dio, è opera sua. E’ questo lo stupore che dovrebbe prenderci.
Come in ciascuno traspare la geniale, l’originale azione creatrice del padre, tutti pezzi unici.
Chi lavora l’argilla al tornio narra che la pressione delle mani e delle dita sulla materia informe deve essere decisa e delicata insieme. E ciò è possibile solo quando l’argilla non si indurisce, quando rimane morbida, magari aiutata dall’acqua.
Questo nostro tempo, come ogni situazione, è azione del Signore. Su di noi c’è un’azione decisa e delicata. Forse in questo tempo ci siamo un po’ ammorbiditi, per quello che ci è accaduto e ci sta accadendo ancora. Il calore delle mani ha bisogno nello stesso tempo dell’abile scorrere delle dita.
E l’opera alla fine porta fissata in sé l’impronta dell’artista. Il profeta ci mette in bocca parole che l’orgoglio spesso fa morire in cuore o sulle labbra.
Nessuno tranne te o Padre, o papà, può agire così. Chi se non te solo?