La liturgia di questa sera, memoriale dell’Ultima Cena, è eccezionalmente arricchita con la Lavanda dei piedi. Potremmo quasi dire che è un’azione rituale che fa da esegesi al Vangelo appena proclamato. In realtà per comprendere il gesto di Gesù dobbiamo leggerlo in continuità con ciò che sta prima (“avendo amato i suoi che erano nel mondo”), cioè con il modo di venire e di stare nel mondo di Gesù Cristo e come anticipazione, prefigurazione di quello che sta per compiere (“li amò fino alla fine”). In un gesto relativamente consueto viene raccolta e significata l’opera di Dio, così come si compie in Gesù Cristo.
Lavare i piedi è il compito riservato all’ultimo dei servi. Perché anche tra i servi/schiavi c’è una gerarchia. Una sorta di scala da salire per acquistare una qualche forma di riscatto agli occhi degli altri. Si capisce che non fosse un posto ambito. Da quanto deduciamo, non era ambito neanche tra i discepoli, che discutono piuttosto su chi fosse il più grande. L’ultimo posto… è sempre libero. Almeno fino a Gesù, quando lo occuperà stabilmente. Lui non è costretto da nessuno, lo sceglie, provocando sconcerto e scandalo, sicuramente in Pietro. Si può dire che Gesù raccoglie in questo gesto non solo il servizio, raccoglie la vita. La sua. Ma in Lui, è raccolta anche la nostra esistenza salvata da ogni mira di affermazione di sé e da ogni ambizione di primazia. Ci istruisce, lasciandoci un esempio, non solo per imparare a servire, ma per apprendere della vita.
Nel gesto di Gesù sono presenti due movimenti decisivi.
“(…) si alzò da tavola, depose le vesti”. La prima condizione richiesta è di spogliarsi. Riferito a Cristo Gesù troviamo che entrando nel mondo Egli “spogliò/svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo” (Fil 2,7). L’amore, allo stesso modo della sequela, prevede sempre un lasciare, un abbandonare ciò che ci riveste, ciò che spesso rappresenta la nostra sicurezza e le nostre difese. Se non si è disposti a mostrarsi nella verità e nella propria misura, non si riesce a piegarsi e a stare davanti all’altro.
“prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita”. Qui troviamo il secondo movimento: di assumere la postura corretta. Per noi l’asciugamano è diventato il grembiule. Che aderisce alla vita. È l’habitus del servizio, perché c’è un modo tipico di quelle azioni nelle quali non sei preoccupato di te, di ciò che indossi, perché al centro c’è quello che fai, la persona di cui ti stai prendendo cura. Il grembiule dice: non ti preoccupare, sono qui tutto per te.
Stasera vorrei soffermarmi sulla parabola del grembiule che ho scelto di indossare per lavare i piedi a questi fratelli e sorelle. Per me ha un valore importante, e lo ha in sé. Mi è stato donato alla Caritas il giorno del mio ingresso in diocesi. In esso c’è un gruppo di volontari (penso volontarie) che hanno messo insieme pezzi di stoffa di scarto, ritagli destinati al macero. Se una volta potevano avere un valore perché parte di un rotolo di tessuto, ormai non potevano essere più usati. Solo occhi attenti ed esperti ne hanno colto la bellezza e l’utilità: sono stati capaci di intravvederne il risultato, valorizzando ogni ritaglio accostandolo con arte e gusto all’altro. Non è questo lo sguardo preliminare di ogni opera, di ogni attività e di ogni servizio? Lo sguardo che sa vedere, anche in ciò che per i più è scarto, la preziosità in una prospettiva altra.
Ma non bastava questa pur necessaria abilità. Serviva ora chi cuciva il tutto. Sono entrate in scena le monache del Carmelo. Quasi a ricordarci la necessità del filo della preghiera, in definitiva dell’opera di Dio. Dell’abilità del Signore che sa saldare storie, umanità diverse, solo all’apparenza impossibili da accostare. Il grembiule, vale a dire l’habitus, gli atteggiamenti del servizio, ci sono preparati e donati da una storia che ci precede di amore, di cultura del servizio di cui siamo beneficiari. Questo è il valore del grembiule che userò tra poco: dice la storia di servizio che è patrimonio di questa nostra Chiesa.
Quest’anno la scelta sulle persone a cui lavare i piedi è caduta su quanti rappresentano dei segni di speranza, spuntati o meglio generati tra di noi. Situazioni e condizioni di vita che potevano essere annoverate tra i casi dis-perati, con il contributo di tanti piccoli gesti di volontari, operatori e degli stessi protagonisti, si sono aperte alla speranza. Si è dischiuso futuro, è avvenuta la scoperta di risorse impensabili e insperate. Questi fratelli e sorelle ci confermano che la speranza germoglia nel campo della cura dell’altro.
Mi sento in dovere di dire che quello che stasera farò è già avvenuto grazie a tante persone che si sono piegate e fedelmente si piegano a dare dignità al cammino (rappresentato dai piedi) di queste persone. Quando la polvere e il sudore delle strade della vita impregnano i piedi, accostarsi non è mai gradevole. Diciamo pure che può essere ripugnante. Ma solo chi sa vedere, oltre lo strato di polvere, la vita di quella persona e del suo cammino, può scommettere che ci sia un futuro, non sempre prevedibile nei suoi contorni. L’acqua versata sui piedi è la fiducia e la speranza prestata a chi, per la sua storia, forse l’ha persa in toto o in parte.
Ma sono certo che anche i piedi dei volontari e degli operatori sono stati a loro volta lavati dallo sguardo che si alzato per incontrare gli occhi di quei piedi. I piedi, senza distinzione, si impolverano e necessitano della premura di qualcun altro. È quello che Gesù ci consegna stasera: “anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni agli altri”. La polvere della sfiducia, la polvere della rinuncia, la polvere di gesti abitudinari che offuscano la carità ha bisogno di essere lavata da Gesù che non di rado assume i panni e il volto di chi bussa alla nostra porta e ti parla di speranza nel gesto della mano che ti porge. Anche senza parole.