Seminario

Vi saluto tutti e vi comunico immediatamente una mia percezione: avverto, insieme alla conoscenza, che cresce man mano che i nostri cammini si incrociano, la consapevolezza che le nostre storie personali si sostengono. Anche nelle settimane scorse, riflettendo su questo nostro incontro, cresceva forte in me la certezza che non posso pensare la mia chiamata nel seguire Gesù fuori della vicenda di questa Chiesa e di questo presbiterio. Ed è dentro a questo orizzonte che sono nate queste considerazioni che desidero condividere perché abbiamo modo di approfondirle e soprattutto di crescere nella corresponsabilità di custodire il dono che abbiamo ricevuto.

1 – La grazia che stiamo vivendo come diocesi. Nell’arco di un anno la nostra diocesi vivrà due eventi straordinari, come la canonizzazione di mons. Scalabrini (di cui oggi facciamo memoria) e la beatificazione di don Giuseppe Beotti. Un vescovo che, senza nulla togliere al carisma ‘Scalabriniano’ suscitato grazie alla sua passione pastorale, è stato riconosciuto nel suo servizio episcopale esemplare per le virtù evangeliche. E un prete-parroco, che ha espresso in un momento drammatico della nostra storia recente, nell’offerta di sé per il popolo a lui affidato. Esemplare, a prezzo della sua vita, nella carità che scaturiva dalla sua vocazione. Mi è nata la domanda: la santità appartiene al passato (magari idealizzato) o ci riguarda? Ce lo ricordiamo: spogliamo la santità da ogni forma di perfezione: i santi sono convinti di non essere santi, e non per falsa modestia.

Domanda che ha il suo senso di fronte alla presenza nella nostra vita di presbiteri di quel fenomeno studiato da decenni in ambito professionale, e non solo, che è il ‘burnout’.

“La sindrome del ‘burnout’ può essere descritta come l’esito di una crisi professionale per cui una persona che un tempo era impegnata a dare il meglio di sé nel suo lavoro, a un certo punto si sente svuotata di energie, vive i rapporti con i suoi utenti in maniera molto distaccata e si convince di poter fare poco o nulla per aiutare veramente le persone che si rivolgono a lei. E’ stata chiamata anche “la sindrome del buon samaritano deluso”, mettendo così in evidenza gli aspetti personali del problema che però non sono i soli, ma sono legati strettamente alle condizioni di lavoro. L’aspetto strutturale ed organizzativo è anzi sempre più attentamente esaminato dagli studi pubblicati” (di Giorgio Ronzoni “Ardere, non bruciarsi”, p.13).

Al di là delle forme più acute, possiamo descriverlo con il fatto che la vita, la vocazione, il ministero vengono messi alla prova. E sempre, in certe fasi in modo più forte, si esperimenta lo scarto tra l’entusiasmo iniziale e lo svolgersi della nostra esistenza.

Ciò che rischia di affievolirsi non è solo l’entusiasmo, ma le motivazioni. Non per niente è raccomandato da S. Paolo che quel dono che è stata la chiamata sia ravvivata (Cfr. 2 Tim 1,6).

L’Apostolo ci richiama che quel che siamo e viviamo va compreso e ricompreso come ‘dono’ per la nostra vita e la nostra vicenda personale, che fa un tutt’uno con la vita e la vicenda del vangelo e della comunità per il quale è stato pensato. Un intreccio tra la mia persona, la mia storia e quella della comunità a cui sono inviato e che è parte di me che viene tenuto insieme dalla vicenda del vangelo che continua a farsi storia. E’ un dono, ma non può essere pensato in forma statica, quasi da congelare perché non deperisca. Tutt’altro, ha più la caratteristica di qualcosa che deve essere alimentato (come il fuoco) con il soffio dello Spirito, riconoscendo il pericolo più grande nell’essere soffocato, nel mancare di respiro.

Per questo motivo leggo come provvidenziali i due eventi che ci sono stati riservati come Chiesa e presbiterio: essi sono accumunati dal medesimo appello alla santità.

Se il nome della santità è il nome di Dio, questo nome lo possiamo rintracciare sinteticamente in Gesù che in una pagina a noi cara dice di sé: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la sua vita per le pecore” (Gv 10,11). Pastori secondo il suo cuore: se questo è il cuore di Dio, ci viene da dire che la chiamata alla santità nella nostra vocazione pastorale altro non è che il far crescere in noi questo desiderio di dare la vita, di non trattenerla così che anche le situazioni nelle quali ci possiamo trovare, diventano la palestra di questo esercizio tutt’altro che scontato di dare la vita fino in fondo. La santità non può essere ridotta ad un generico invito ad essere più buoni, più bravi…

 2 – Di questi due santi (Scalabrini e Beotti) è stato detto molto e continuerà l’approfondimento sulle loro esistenze credenti. Certamente le condizioni nelle quali si trovarono a vivere il loro ministero non furono affatto favorevoli. Incontrarono ostacoli e sfide storiche. A ricordare, a noi prima di tutto, che il ministero pastorale di sua natura sta nelle fessure della storia, in quelle spaccature che ogni epoca produce. E ci sta non ‘a ore’, non con contratti a tempo determinato, ma pure un per sempre che coinvolge l’intera persona.

 «Può darsi che Dio non venga mai in prima persona a prendersi ciò che gli spetta in base alla mia “offerta”, prima dell’incontro gioioso finale. Può darsi, anzi, sarà quasi sicuramente così, che la mia vita appaia così ordinaria da credere che Lui non abbia mai preso in considerazione la sua “piccola vittima” che si dibatte e cerca in tutti i modi di piacergli e di dargli gloria. Lui però manda tutti i giorni, tutti i giorni, qualcuno per ritirare ciò che è suo. Cioè, la mia vita: è il fratello che mi dà noia, è la situazione in cui sono umiliato, in cui le mie intenzioni non sono comprese… è la solitudine e il senso di essere dimenticato da tutti… Di non essere preso in considerazione nei miei bisogni, nelle mie “necessità” … Nel mio egocentrismo, altro che necessità! Comunque in tutte queste occasioni Dio manda qualcuno a ritirare ciò che gli è stato offerto, e quanto è esigente. Se però non riesco ad essere esigente in questo piccolissimo “oggi” non sarò mai fedele, mai pronto per un dono reale che mi possa essere richiesto (…). Signore converti la mia vita e “sia per oggi”, ogni piccolissimo oggi, frutto del tuo Amore, fino all’ultimo Domani, fino alla Venticinquesima Ora, fino al Tuo Giorno, fino al Tuo Oggi – sempre/Ogni – Bene» (Da Infinita fiducia, quaderni spirituali di don Claudio Girardi).

Per questo solo la passione per Gesù e la sua passione per l’umanità ci possono permettere di stare, in questo preciso momento della storia, senza nessuna forma di fuga. Allora mi sembra che questi due santi ci attestino che il nome della santità è proprio la fedeltà al proprio tempo, a quella situazione precisa. Non può non colpire la decisione di don Giuseppe Beotti di restare quei giorni a Sidolo, semplicemente perché c’era qualcuno che poteva aver bisogno del suo pastore. La ragione e la forza di restare ce la indica quella notte in preghiera. Non è la stessa orazione di Gesù nell’orto del Getsemani? Non siamo in presenza di supereroi, ma di radicati in Dio. In questo modo, per questa via, si riesce a trovare la compagnia di Gesù che, per primo e fino alla fine, rimane. Nell’amore.

Per evitare il rischio di pensarci con l’esclusiva, il Signore ci manda spesso fratelli e sorelle che ci testimoniano la stessa (se non maggiore) fedeltà a situazioni dalle quali sarebbe giustificabile una qualche fuga. Quando ci sembra che ci sia chiesto troppo, facciamo memoria di tanta fedeltà nell’amore che incontriamo.

La nostra fatica, il nostro sacrificio è unito a quello di Cristo e a quello di tantissimi fratelli e sorelle: e tutto rivela la presenza potente dell’Amore incondizionato. Questo è martirio.

 3 – Per questa strada la nostra persona e il nostro ministero (unito a quello di tanti) sono una forma di evangelizzazione. E’ annuncio testimoniale dell’Amore che salva.

Qui si intrecciano ancora, nel primato dell’evangelizzazione, i nostri due santi. Mons. Scalabrini che avverte, tematizza e opera perché anche nella carità (vale a dire nella cura di chi parte o di chi è in necessità) si operi l’annuncio del vangelo. Mette a tema della sua opera pastorale la cura della fede e il primato dell’evangelizzazione dei fenomeni storici. Don Giuseppe Beotti che nell’ospitalità evangelizza, che viene evangelizzato prima di tutto lui nella decisione del vescovo di inviarlo in quest’angolo sperduto della diocesi e all’apparenza senza prospettive. Scrive al vescovo: “Poiché mi trovo senza giovani, senza bimbi, senza scuole, con una popolazione di poco più di cento anime, mi sento in certi momenti anche senza vita e più forte si sente l’isolamento. Intanto moltiplicherò gli sforzi, moltiplicherò le mie energie, lavorerò più in profondità che in estensione, più nel tempio vivente dell’anima, che nella casa di Dio…”.

C’è un’attualità in questa storia santa: non si tratta di cercare ricette per il nostro oggi, quanto di accogliere le indicazioni sulle qualità umane e ministeriali da maturare per rimettere al centro il vangelo da vivere per poi annunciarlo. Cosa c‘entra il Vangelo in quello che sto vivendo e in quello che faccio? Qui, come in ogni testimonianza ardente esemplare, ci è offerta la conferma che la santità è possibile, che non è semplicemente da riprodurre, ma che essa genera risposte creative secondo lo Spirito, per continuare a rendere viva la buona notizia del Regno.

Allora la chiamata alla santità è l’offerta a ritrovare ragioni per vivere la nostra vocazione, ricentrarci sull’iniziativa del Signore che sta all’origine del nostro ministero. Perché il Signore ci dona la grazia, dentro alla situazione in cui ognuno e tutti ci troviamo, per salvare la nostra vita e la vita dei nostri fratelli/sorelle.

In questa ottica è realistico riconoscere tracce di santità presente ancora oggi in tante persone che esprimono il dare la propria vita e non solo scampoli di tempo e di energie. Possiamo leggere come un sostegno alla vostra vocazione il cammino che stiamo facendo, nel quale sta crescendo la corresponsabilità e la stima reciproca. L’obiettivo è che il criterio evangelico traspaia sempre più nelle nostre decisioni, nel volto di Chiesa che nascerà da questa stagione.

Mi auguro che anche la Visita pastorale che tra poco inizierò possa essere un’opportunità per sostenerci a livello personale, presbiterale ed ecclesiale in questo cammino alla santità. Anche questo nostro tempo, questa stagione della Chiesa, è un tempo di grazia.

Che i nostri Santi, quelli dichiarati tali e quelli che scrivono il loro nome nel calendario delle nostre giornate intercedano per noi e per il nostro cammino di Chiesa.