Sala degli Arazzi

Dall’economia abbiamo imparato che è decisivo, in ordine alle scelte e per l’efficacia di quello che facciamo, l’indice di fiducia. Dalla fiducia dipendono gli investimenti, i consumi, lo sviluppo, la stagnazione o la recessione. Sappiamo anche che la sicurezza ha due componenti: il primo è il livello di sicurezza, che si misura sui dati statistici, per esempio il numero dei reati in un determinato territorio; il secondo è la sua percezione, che spesso va per conto proprio rispetto alla realtà dei fatti. Ma tutti sanno che non si può sottovalutare o minimizzare il dato percepito, perché è avvertito come reale e per questo determina il modo di pensare, di giudicare, di agire.  

Allo stesso modo anche la fiducia non sempre è figlia di dati indiscutibili; anzi può essere confusa, ferita molto di più da una percezione che fa dire: “E’ tutto nero!”. “È impossibile”. “Non ce la possiamo fare”. Si tratta di un giudizio che può essere pronunciato o rimanere inespresso, ma il risultato è lo stesso.   “Che cosa è questo per tanta gente?”, dicono i discepoli a Gesù, davanti ad una moltitudine di persone per le quali non riescono a mettere insieme che qualche pane e qualche pesce. Volendo andare per quella strada, non hanno neanche il denaro per comprare il necessario (cfr. Gv 6,1-13). In bocca ai discepoli troviamo la risposta più facile e logica, umanamente parlando: “Congeda la folla”. Ognuno vada per proprio conto. Con la rinuncia c’è però una conseguenza la cui portata non è presa in considerazione: l’effetto che la sfiducia provoca è la disgregazione della comunità. Il suo dissolvimento. Sull’altare della sfiducia si è disposti ad immolare l’altro e le relazioni comunitarie, che magari con fatica si sono costruite o abbiamo ereditato. La forza non è più riposta nell’essere una comunità che affronta insieme la fame con le poche risorse. Prevale infatti l’illusione che ognuno si possa salvare andando per proprio conto. La sfiducia mina il senso e il valore della comunità a favore dell’individualismo.

Constatiamo che la sfiducia è contagiosa, acceca, destabilizza e perciò alimenta il malcontento

E qui vorrei rinviarvi a due episodi che troviamo nel libro dei Numeri. 

Il popolo nel deserto conosce a più riprese questa sfiducia. Non si può negare che ci fossero motivi per lamentarsi del cibo e della mancanza di acqua, di un tempo dilatato che sembrava anche inconcludente. C’erano tutte le ragioni per screditare chi era stato messo a capo (Mosè e, insieme a lui, Dio stesso). È interessante che la conseguenza di quella mormorazione è mortale, velenosa, come i serpenti che si insediano nell’accampamento e colpiscono a morte (Num 21,4-9). La sfiducia genera morte, non vita, non futuro. 

Nella stessa linea troviamo gli esploratori che, alle soglie della terra promessa, screditano quella terra, per la paura di non avere abbastanza forze per conquistarla, invece che accoglierla come dono di Dio, e così deviano la strada per 40 anni (Num 13,25-33). La terra promessa, la terra nella quale stanno per entrare è pensata come una terra di conquista. Per questa ragione si misurano le forze, arrivando alla conclusione che è inaccessibile. Se avessero ascoltato le loro paure sarebbe stata pregiudicata la promessa per la quale avevano intrapreso il cammino nel deserto.  

Va detto che in una comunità c’è sempre chi si fa portavoce di questo sentimento, chi esagera i toni e cerca, trovandole, facili alleanze, complicità.

Credo che ciascuno abbia intravisto, tra le righe, che sto parlando di noi. Almeno di un possibile (e credo reale) pericolo, una vera e propria tentazione: di dare credito alla percezione di avere una sfida sproporzionata alle nostre forze e risorse. Qui nasce e si alimenta la sfiducia. Se mettiamo in fila le sfide con le quali abbiamo a che fare, non possiamo non provare la sensazione di dover affrontare una lotta a mani nude.

Le “mani nude” è l’esiguità dei numeri delle nostre assemblee, che al contrario ci farebbe sentire forti; è l’impari sfida con una cultura dominante e vincente così lontana da Gesù: oggi sfioriamo la derisione parlando del vangelo. Le “mani nude” sono il mancato riconoscimento dei ruoli educativi e degli adulti; sono la solitudine che attraversa in particolare noi adulti, sacerdoti compresi. Le “mani nude” sono la sensazione che neanche tra noi siamo uniti: siamo pochi e in competizione. In tutto questo non mancano coloro che si compiacciono di mormorare, di screditare, di cercare, esagerando, tutto ciò che mortifica la fiducia. 

In tutto questo perché la fiducia ci è necessaria? 

Essa ha la sua radice nella fede. La fiducia non equivale all’ottimismo: essa – come abbiamo detto per la speranza – si radica in una promessa che è capace di suscitare un’attesa. 

Ieri sera Andrea Pozzobon ci ha ricordato che la fiducia nasce da una situazione di incertezza. La fiducia pone lo sguardo sulla realtà carica di una presenza non evidente, da scorgere, una novità che può sorprenderci. Al contrario la sfiducia vive della rassegnazione che niente potrà accadere, oltre a quello che abbiamo conosciuto, vissuto, sperimentato.

A causa della comune radice di fede e fiducia c’è una circolarità tra l’essere credente e l’essere animati da fiducia. 

Infatti quando non si scommette sul futuro, non si investono energie nelle relazioni, significa che non si dà credito al Signore.  Non si riconosce che sia ancora all’opera nella nostra storia. 

Possiamo essere dei praticanti, ma non credenti, e questo vale per tutti, vale anche per noi, che forse ci consideriamo più vicini al Signore, alla fede. 

La sfiducia è un brutto sintomo per la fede. 

In particolare un messaggio mortifero è la sfiducia nella comunità, nella Chiesa. 

Ne abbiamo conferma dall’esperienza delle relazioni: “Non ti fidi di me, non hai fiducia in me”. Quando qualcuno si esprime così, manda messaggi letali per la relazione, come pure per la persona con cui si relaziona. Questo messaggio disgrega, dissolve una comunità che è indotta a respirare l’aria della sfiducia. Minando la relazione elimina l’altro dal proprio orizzonte.  Per questa ragione la fiducia che viene meno è una forma sottile attraverso la quale ci riappropriamo della signoria sulla nostra vita. 

E’ riduttivo ridurla a semplice pessimismo o realismo.

Al contrario, dall’esperienza conosciamo che la fiducia è capace di suscitare energie, di cogliere le cose, di arrivare dove non si riuscirebbe ad arrivare. 

Il primo che agisce in questo modo è il Signore. Interroghiamoci su quale sguardo generi fiducia o al contrario la deprima. In questa prospettiva vorrei suggerire alcuni passaggi che spero possono aiutarci a convertire il nostro sguardo. 

Quale sguardo genera fiducia o al contrario la deprime? 

–  Lo sguardo su noi stessi e sulla nostra storia

La fiducia è fondata prima di tutto sulla nostra elezione: il Signore mi ha scelto (“Rendo grazie a Colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento…”, 1Tim 1,12-13a). S. Paolo riconosce che lo ha reso forte la fiducia che il Signore gli ha riservato, non il suo passato glorioso e meritevole. Questo amore di elezione è ciò che ci rende forti rispetto alla vita e al compito che ci è affidato. Come pure rispetto alle sfide nelle quali ci troviamo immersi. Tutto questo è avvenuto per ciascuno di noi, nel battesimo. È su questa grazia battesimale che fondiamo la nostra forza, il nostro servizio, la testimonianza dell’Amore che precede tutti. Da lì provengono le nostre successive chiamate ai diversi stati di vita o ai ministeri ecclesiali. Da quell’iniziativa originaria scaturisce ogni altro modo di stare al mondo e nei vari mondi della vita (civile – sociale – politica – professionale – economica…). Non dobbiamo trascurare l’impegno che nasce dal battesimo verso la custodia del creato, verso la responsabilità negli ambienti di vita e professionali.

La vita battesimale salda la fede con la vita a 360º. È questo Amore che ci rende degni di fiducia, affidabili e a nostra volta capaci di accordare la stessa fiducia. Non siamo i migliori, siamo testimoni e portatori di un amore più grande di noi. E’ questo amore che ci rende degni di fiducia, affidabili e a nostra volta capaci di accordare la stessa fiducia. 

Ci possiamo chiedere da dove nasce il gesto del ragazzo, a cui Giovanni attribuisce l’inizio del segno dei pani, che ha messo a disposizione quei cinque pani e due pesci. Anche perché realisticamente sembra improbabile che fosse l’unico ad aver qualcosa con sé. Sicuramente c’è una dose di incoscienza giovanile – non ancora intaccata dal tarlo del pensare per sé – nel valutare che potesse servire a qualcosa quella “poca roba”. (Non abbiamo forse ceduto anche noi al sogno che la nostra vita potesse servire alle necessità del mondo?). Mi piace immaginare che dentro a quel gesto ci fosse un’educazione che ha fatto maturare quella disposizione a donare, a prendersi cura. Quel gesto racchiude la logica che quello che hai non sia a tuo uso e consumo, ma che, per quanto piccola, l’offerta genera molto di più.

Di recente, a fronte del calo delle iscrizioni negli indirizzi universitari di cura (educativa, sociale, sanitaria), si constata che una parte consistente di chi comunque si orienta verso queste professioni proviene dai nostri ambienti, dai movimenti e/o associazioni.

Non può essere motivo di fiducia in ciò che facciamo e i cui risultati non sempre ci appaiono evidenti? Non è un miracolo che dentro al bombardamento culturale in cui siamo immersi si faccia strada ancora il desiderio e la decisione di pensarsi come dono per qualcun altro?

Non è la forza del vangelo che opera anche attraverso le piccole, deboli, fragili, a volte anche inconcludenti, attività, iniziative delle nostre comunità, delle nostre parrocchie? Cerchiamo questi segni che ci possono sostenere nella fiducia: consapevoli tuttavia che il primo motivo di fiducia all’origine della nostra vita è l’atto di fiducia del Signore che rimane, permane, nonostante le contraddizioni e le smentite delle nostre azioni.  

–   Dove guardare per essere aiutati ad avere fiducia in un futuro come promessa di bene rispetto alle tradizioni molto radicate che a prima vista sembrano inattaccabili? Spesso la rinuncia a pensare e a proporre qualcosa di nuovo nasce dalla convinzione che è velleitario prospettare un cambiamento in certi ambienti. È impossibile – diciamo – scalfire le incrostazioni presenti nelle nostre comunità. 

Qualche settimana fa sono stato a Farini per l’annuncio del nuovo parroco. Buona parte dell’incontro ha visto protagonisti i rappresentanti delle diverse parrocchie del Comune. Hanno raccontato il cammino fatto nel tempo che ci separava dalla morte di don Luciano. È stato unanime l’apprezzamento per il cammino di comunione.

Il frutto è stata senz’altro la comunione cresciuta tra loro e tra le diverse comunità, storicamente arroccate ognuna sulle proprie abitudini e tradizioni. Non senza iniziali fatiche, si sono avviati processi di superamento delle storiche distanze fondate sul campanilismo. Il risultato, coralmente riconosciuto, è stata la crescita della conoscenza, della stima e di uno sguardo diverso nel pensarsi come comunità cristiana. Erano presenti, certo, coloro che avevano accettato questa sfida, ma da loro stessi è stato confermato il fatto che avevano visto il guadagno di questa prospettiva: il futuro delle loro comunità.

In tal modo è cresciuta progressivamente l’adesione verso il convergere delle attività e delle celebrazioni.

Lo ritengo un esempio (non è l’unico) di come la fiducia (tenace) in qualcosa che può presentarsi in mezzo ad inevitabili resistenze e sospetti sia capace di dare frutti.

C’è bisogno di persone (preti e laici) che prestino la fiducia indispensabile per avviare un percorso. È un invito a crederci, fidandosi che, ricentrarsi su Gesù, determina una purificazione dalle incrostazioni che hanno alimentato a volte identità sociologiche più che identità cristiane. Ricentrarsi su Gesù alimenta fiducia e sconfigge tante divisioni.

Invece tante volte abbiamo ridotto i nostri paesi, le nostre comunità, forse anche quelle un po’ più grandi, a delle realtà che sociologicamente avevano costruito un’identità. La domanda è: ma è questo quello che ci compete? Se è una conseguenza va bene, ma non può essere l’obiettivo. 

  • Mi piacerebbe che questo nostro inizio dell’Anno pastorale fosse capace di far crescere le ragioni di fiducia tra noi. In noi. Ciò che in questi anni abbiamo saputo consegnare al Signore nel Cammino sinodale e nella Visita pastorale ha dato frutto. Nessuno pensa a qualcosa di trionfalistico, di traguardi raggiunti. Ma alcune indicazioni maturate grazie all’Assemblea sinodale diocesana rimangono dei riferimenti. A partire da lì maturiamo delle scelte. Rispetto al discernimento comunitario, l’ascolto avvenuto nelle conversazioni nello Spirito ci hanno fatto intravvedere la possibilità di raggiungere delle convergenze che non sono il risultato di equilibri o di strategie. Il discernimento (comunitario) si impara facendolo, accettando anche gli inevitabili fallimenti. E’ straordinario immaginare un futuro dove tutti siamo parte di un ascolto docile, tipico dei discepoli. Se, come ci è stato ricordato ieri sera, rimane decisiva la qualità delle relazioni tra noi non possiamo permetterci di non fare un grande esercizio di correzione e comunione fraterna per non essere di intralcio all’azione dello Spirito Santo. 

Siamo convenuti su quattro grandi capitoli della pastorale e della vita delle nostre parrocchie (L’iniziazione cristiana, la celebrazione dell’Eucaristia, la cura degli adulti, i Consigli pastorali). La Visita pastorale li ha confermati come nodi cruciali per essere missionari oggi. Qui c’è una domanda di Vangelo, di una Parola di Vita. Ci sono passi che ci attendono.

Potremmo essere noi a seppellire i germogli fioriti oppure a prendercene cura. Anche di recente ho incontrato alcune parrocchie che stanno rifiorendo grazie ad alcuni gesti di fiducia che sono stati seminati. Ma va detto per onestà quanto sia importante il nostro compito di presbiteri e diaconi in questa fase. Chiediamoci se respiriamo la fiducia necessaria e se siamo capaci di averla verso gli altri confratelli e i laici. La fiducia cresce nella benevolenza.

Dobbiamo allora condividere ciò che non siamo disposti a perdere di quanto abbiamo vissuto. Sarà il lavoro che seguirà a questa relazione.

Vorrei concludere con le parole che papa Leone ci ha rivolto al termine dell’Udienza nel nostro Giubileo diocesano: 

“Auspico che fortificati dalla grazia del giubileo possiate essere testimoni di fraternità e di carità evangelica nelle vostre comunità” (Papa Leone XIV, Udienza del 04 ottobre 2025). Sono parole a prima vista semplici, magari anche di circostanza, ma ho cercato di farle risuonare e di rilanciarle, di riconsegnarle. 

Le esigenze della fraternità e della carità evangelica sono un mandato bello ed insieme impegnativo. La fraternità è un processo tutt’altro che semplice e lineare: se la fraternità è data, lo è per essere compiuta. Ma credo che la coscienza di essere fratelli e sorelle spinga a riprendere il cammino ogni qualvolta prevale una diversa percezione dell’altro. La fraternità non si accontenta di un generico rispetto dello spazio altrui, per rivendicare la legittimità del proprio, perché l’obiettivo è l’incontro che sa promuovere spazi di arricchimento reciproco grazie all’altro.