CATTEDRALE – 02.04.22
Ger 11,18-20
Gv 7,40-53
“Mai nessun uomo ha parlato così”. Sono le parole che le guardie pronunciano a giustifica del fatto che non hanno eseguito l’ordine di arrestare Gesù. Persone che non avevano studiato di Scritture, eppure sono loro ad essere catturate dal Maestro con le parole sull’acqua viva e da quell’invito: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva”. Posso immaginare che anche per don Vittorio, all’inizio di questa straordinaria avventura, ci siano state proprio le parole di Gesù, che ti entrano dentro e che non riesci a scrollarti di dosso. Parole di vita, parole che inquietano fintantoché non ti cambiano la vita, il modo di pensare, il modo di guardare. Parole che abbattono le resistenze e soprattutto gli alibi. C’è una sete di vita, di amore che cerca un pozzo dove questa acqua ti è offerta. Acqua pura, non inquinata.
Quelle parole scolpite nel cuore, prima ancora che nella mente di don Vittorio, si sono poi impresse nelle mani e nei piedi di tanti volontari. Magari mosse dalle sue parole e dai suoi gesti, così che anche di lui si è potuto dire: “Mai un uomo ha parlato così”. Il male è contagioso, lo sappiamo bene. Ed oggi ci viene confermato che anche il bene lo è.
È vero che c’è tanta sete nel mondo, ma è altrettanto vero che c’è anche tanta acqua che la può calmare. Africa mission si è dedicata a perforare pozzi. Ma insieme è urgente perforare terreni incrostati dal pregiudizio, dalle paure e dalle chiusure. E ci accorgiamo che dissetando la sete degli altri, si disseta anche la nostra. Di altro genere, ma non meno grande.
“Come un agnello mansueto che viene portato al macello”. È l’immagine che la pagina di Geremia ci consegna, che alla luce di Gesù raccoglie la qualità più alta di ogni esistenza: quella della mitezza. L’immagine dell’Agnello rinvia a Gesù che fa propria questa profezia e la compie: è quello che in ogni Eucaristia, prima di accostarci alla comunione, ci viene indicato: “Ecco l’agnello di Dio”. Se in Gesù ci colpisce il suo modo di essere condotto alla morte senza opporre resistenza, segno della sua offerta di sé, della risposta non violenta ad ogni forma di violenza e di sopraffazione, dall’altra facciamo fatica ad accoglierla come vera per noi. Ci è più spontaneo agire con forza (anche a fin di bene).
La mitezza è una delle beatitudini (“Beati i miti perché avranno in eredità la terra”). La terra ci è donata accostandola con mitezza e con delicato rispetto. Nessuno sfruttamento, ma piuttosto un lento e fedele cammino di crescita.
Penso che questo tratto mite oggi il Signore ce lo richiami perché ogni nostro servizio sia mite nei modi e nei tempi. E questo ci aiuta a liberarci dalla logica del protagonismo in forza del quale siamo noi a stabilire i risultati e i loro tempi. È un agnello (cioè un animale mite e indifeso) che viene condotto: c’è qualcosa che si deve progettare, ma poi è la storia con i suoi imprevisti a determinare i cammini. Noi siamo consapevoli che il protagonista è e rimane sempre il Signore: lo è stato ispirando all’inizio questo proposito di prossimità, suscitato dalle parole del Vangelo, lo è oggi nella condizione di lasciarci raggiungere e sorprendere dagli appelli che la terra d’Africa e di Uganda fanno risuonare.
Credo sia provvidente l’anniversario che stiamo inaugurando in questo preciso momento storico nel quale corriamo il rischio che il coinvolgimento emotivo del dramma di un conflitto (cioè quello in Ucraina) tende a farci dimenticare le altre emergenze e magari, Dio non voglia, giustificare comportamenti selettivi per cui ci sono poveri di serie diverse, profughi da accogliere e altri da selezionare, case che si aprono o chiudono a seconda di chi bussa alla porta, a seconda magari del colore della loro pelle. Il Signore ci salvi da questa “sciagurata ipocrisia”. Perché la carità, la prossimità è sempre una, indipendentemente da chi è nel bisogno.