S. Maria di Campagna Sir 3, 3-7.14-17a Col 3,12-21 Mt 2,13-15.19-23
“E rendete grazie! La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza”. Possiamo dire che è questa la consegna che attraverso s. Paolo, il Signore ci lascia al termine di un Anno straordinario di Grazia. Non abbiamo la pretesa di fare bilanci perché andremmo a riappropriarci della vita e dell’azione di Dio che sfugge, da sempre, ad ogni nostro controllo. “E rendete grazie,” ci dice l’Apostolo, dove in quella congiunzione ‘e’ c’è un legame con tutto quello che precede. Qualsiasi cosa si possa fare e vivere, non può mancare un successivo rendimento di grazie. È il modo per mantenerci aperti allo sguardo fiducioso verso ciò che si conclude. Solo rendendo grazie si dipana la complessità delle nostre esperienze, scoprendo ciò che ci è stato donato, dando nome alle grazie ricevute. Oggi si apre il tempo del dire grazie: a livello personale e a livello ecclesiale, come stiamo facendo.
Raccogliamo anche la seconda raccomandazione che ci ha rivolto s. Paolo: permettiamo alla parola di Cristo di abitare tra noi, cioè in mezzo a noi favorendo che rimanga quale regola delle nostre relazioni, che le illumini e le salvi. Ce lo siamo ricordati un anno fa: la necessità e l’urgenza di lasciare che il Signore Risorto faccia verità in noi e tra noi. Alla domanda che è risuonata in occasione dell’apertura dell’Anno giubilare: “c’è cielo sopra la nostra testa?” oggi aggiungiamo: “c’è cielo tra di noi? C’è cielo nella nostra pastorale? C’è cielo nel presbiterio, tra fedeli laici? Tra aggregazioni ecclesiali? …”. Di recente un’indagine ha evidenziato che noi italiani avremmo il primato della nostalgia. Qualcuno ci ha descritti come ‘nostalgici scontenti’, propensi a vedere nel passato quello che c’era e nel presente quello che manca. Mi sono chiesto: vale anche per noi battezzati? Vale anche per noi, veri o presunti, pellegrini di speranza? Se di una nostalgia è giusto parlare è del futuro che ancora non ci è dato e verso il quale siamo incamminati.
Prendiamo sul serio quello che la pagina evangelica della domenica della Santa famiglia di Nazareth ci consegna. Vorrei con voi raccogliere due immagini: quella dell’esilio (in Egitto) e quella dell’abitare (in una città chiamata Nazareth). Il vangelo secondo Matteo presenta i primi tempi della vita di Gesù dentro una condizione di insicurezza e di conseguente precarietà. A Giuseppe è ordinato di fuggire in Egitto e di restare là “finché non ti avvertirò”. Non è la condizione del migrante ma dell’esiliato. La famiglia di Gesù sta in quella situazione forzata. Non si dice per quanto tempo: resta in attesa di una parola del Signore. In noi è sempre forte la ricerca di garanzie, la necessità di avere tempi certi, condizioni consolidate, garanzie affettive. Con il rischio che la nostra vita e le nostre relazioni rimangano sospese. Anche quelle ecclesiali. Si alimenta così un’indecisione paralizzante: cresce la paralisi dell’immaginazione, dei sogni e di conseguenza dell’investimento, della volontà di rischiare. Si rinviano le decisioni sulle scelte di vita, sulle scelte vocazionali, non si mettono al mondo figli perché, si dice, non ci sono le condizioni soggettive (non si è pronti) e oggettive (sono carenti le risorse e i servizi). L’incertezza appartiene a questo nostro tempo. La speranza nasce dalla fiducia in un presente che non è la fine. Anche se non riusciamo a vedere cosa c’è dietro l’angolo. Notiamo che la parola del Signore raggiunge Giuseppe in Egitto, lì riceverà indicazioni verso dove andare. Nel momento in cui arrivano, si capisce che si tratta di indicazioni provvisorie: “Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra di Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret (…)”. Ecco la responsabilità dell’adulto Giuseppe a cui è affidato il compito di introdurre Gesù dentro alla dinamica della fede che si dà nella condizione precaria dell’essere umano. Per il fatto che la provvisorietà non ha una scadenza temporale o esistenziale, siamo invitati ad assumerla come condizione della nostra fede.
Eccoci alla seconda consegna del vangelo: l’abitare a Nazareth. Nella scrittura i nomi hanno in sé un contenuto. A tal riguardo Nazareth ha due possibili radici: il germoglio o il verbo “custodire/proteggere”. Nazareth è il luogo che evoca il compiersi delle promesse di Dio (Is 11,1: “un germoglio spunterà dal tronco di Iesse”), e, insieme, è luogo di custodia della presenza di Dio tra gli uomini. La speranza, che si affaccia nel mondo in Cristo, il Verbo di Dio, ha bisogno di essere custodita nella sua debolezza, perché è germinale. Il tema della dimora, della casa è parte del mistero dell’incarnazione: il Verbo di Dio che si fa carne ha bisogno di un corpo (e per questo il sì di Maria è decisivo); ha bisogno di essere parte di una storia di promesse (per questo Giuseppe lo inserisce nella dinastia davidica); ha bisogno di una casa che lo leghi ad una comunità che lo introduce, lo inizia alla vita e alla fede (per questo abita Nazareth). La casa allora non è unicamente il domicilio necessario. È condizione perché l’umano possa esprimersi in pienezza.
Oggi parliamo di emergenze, cioè di bisogni che con fatica trovano risposte. Tra queste la nostra città (e non solo) vive quella abitativa. Anche oggi la casa racchiude in sé una molteplicità di significati e di valori: dice dignità, accoglienza, è strumento per dare stabilità e perciò per favorire il senso di appartenenza alla città che ospita. Casa è, in sintesi, l’ospitalità attraverso la quale le persone devono assumere le proprie responsabilità (personali, relazionali, civili). Grazie alla disponibilità e al contributo della provincia francescana dei frati minori, come sapete abbiamo voluto predisporre una parte del Convento qui a fianco per un progetto di cohousing sociale. Uno spazio nel quale possano abitare insieme persone con fatiche personali, lavoratori precari e studenti fuori sede. L’abbiamo pensato come un’opera-segno giubilare, segno di speranza. Un laboratorio di convivenza che aiuti a fare quel passaggio oggi auspicato dall’‘io’ al ‘noi’. L’opera-segno non si esaurisce nell’intervento di restauro e di adeguamento strutturale che ci consegna degli spazi belli e funzionali. Sarà tale nel momento in cui riesce a suscitare la disponibilità di persone che lo possano rendere vivo di relazioni con il territorio.
È stato suggerito che possa essere sostenuta anche da quella rete di soggetti, nata in epoca Covid, attivata successivamente per l’emergenza energetica. Sarebbe un bel segnale per la città e il territorio perché potrebbe far da traino alla partecipazione di altri soggetti e associazioni in vista di una città solidale. Diventerebbe in tal modo un bel seme di speranza.
Concludo parafrasando le parole della sorella detenuta che avevo citato l’anno scorso con le quali auspicava che il Natale fosse il venire del Dio della misericordia e della pace, così forte da poter dire: “da oggi è Natale!”. Stiamo per compiere l’Anno giubilare della speranza, che il Signore ci doni come frutto di riuscire a dire “da oggi c’è Speranza”. Per tutti.




