Veglia diocesana per le vittime di abusi
Castel S. Giovanni –
Dn 1,3-15; 3,8-21.92-95 Mc 10,13-16
È felice l’idea che la Commissione ha maturato rendendo questo momento di preghiera itinerante, perché il tema sul quale riflettiamo contamini la sensibilità e l’interesse delle nostre comunità. Ringrazio la comunità di Castel San Giovanni che ci accoglie e la Signora Sindaco, con le autorità presenti.
In questa veglia di preghiera ci stanno guidando due pagine della Scrittura con al centro dei bambini, dei ragazzi. Due pagine lontane tra loro nel tempo, eppure in entrambe emerge la fatica, per gli adulti citati nei testi, di mantenere un atteggiamento di rispetto verso i giovani protagonisti. Un rapporto, purtroppo, che sembra facilmente in balìa del sopruso. Un rapporto vulnerabile. Le pagine che commentiamo mettono in luce come si manifesta la mancanza di rispetto. Il rispetto lo si dà nel momento in cui si riconosce la dignità e il valore all’altro, chiunque egli sia. Qualunque sia la sua condizione. Anzi, è più evidente quando si manifesta per una persona che vive una fragilità costitutiva e perciò il soggetto è in-difeso.
Nel primo episodio alcuni ragazzi sono al centro del delirio di potere di un re. Quello che a prima vista poteva essere un gesto di predilezione per questi bambini scelti per assicurare loro un futuro prestigioso, ben presto rivela ciò che è mascherato: un pericoloso narcisismo. Un io idolatrico cerca di sottomettere gli altri all’adorazione della propria immagine. Il rifiuto acceca e trasforma la benevolenza in forza distruttrice. È ben descritta la dinamica di certi comportamenti abusanti che prendono avvio da gesti che tendono a catturare la fiducia e che ben presto si trasformano in relazioni tossiche.
Il racconto che troviamo nel libro del profeta Daniele ha un esito positivo, anche se non osiamo immaginare quanto l’esperienza abbia segnato questi fanciulli: il trovarsi dentro una fornace dalla quale sono liberati miracolosamente non può non essere stata drammatica, traumatica.
In quella fornace c’è un quarto essere, “simile nell’aspetto ad un figlio di dei” (Dn 3,92), che passeggia con i tre giovani. È la conferma che Dio scende in quel luogo di morte perché questi giovani non si sentano soli e abbandonati. A me, immediatamente, questo testo richiama la discesa agli inferi di Gesù, dopo la sua morte, e grazie alla quale libera i giusti che vivono incatenati in una dimora di morte. Il mistero pasquale ci assicura che il crocifisso-risorto abita ogni nostro luogo esistenziale di morte per farci risalire. Nel racconto di Daniele il quarto essere non esce dalla fornace, sembra rimanere perché chi si ritrova in una situazione simile non sia mai solo: quel luogo è infatti già abitato dal Crocifisso. Lì il Risorto scende, perché un nucleo della persona sia salvato dal senso di morte che la violenza produce. Viene sottratto dal Signore alla potenza distruttrice della fornace, per riuscire a guardare l’esperienza da fuori, da un luogo di salvezza.
Penso in questo momento alle vittime di azioni abusanti: è motivo di speranza questo annuncio, per cui c’è un’azione salvifica di Dio che sottrae tutti coloro che si trovano in balìa del male subìto. Un’azione che libera e permette di uscire, di risalire. Ma penso anche a noi, comunità cristiana, invitata a stare dove sta Gesù, per essere, come stiamo facendo stasera, presenza che si accompagna nel dolore condiviso. Non da spettatori distaccati, ma da fratelli e sorelle partecipi di ciò che si consuma.
Abbiamo poi la pagina del vangelo nella quale Gesù rivolge un rimprovero forte ai suoi discepoli e, quindi, anche a noi. Un rimprovero unito al suo indignarsi di fronte al loro comportamento: essi allontanano i bambini, non riconoscendo loro la dignità di potersi accostare a Gesù. Ritorna la mancanza di rispetto.
Ricordo l’esperienza di Davide, un bambino vulnerabile perché autistico e down, considerato dalla catechista impossibilitato a ricevere i sacramenti. Quella scelta – evitiamo ogni giudizio – lo aveva convinto che per lui non ci fosse la possibilità di incontrare Gesù. Per dirci quanto la nostra mediazione (di noi, ”vicini” a Gesù) sia decisiva, nel bene e nel male: siamo segni e strumenti della grazia di Dio, del suo Amore. Facilitatori o ostacoli a seconda del nostro sguardo, delle nostre parole e dei gesti che poniamo.
Vorrei ripercorrere prima i gesti di Gesù che inverano le parole: “prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro” (Mc 10,16). Sono tre verbi (prendere – benedire – stendere le mani) che evocano altri gesti sacramentali di Gesù. Questi piccoli, fragili e vulnerabili, sono consacrati, diventano motivo di benedizione e presi tra le braccia per essere consegnati alla comunità. Gesù dà dignità e ce li consegna perché il rispetto nasce dalla sua predilezione. Li riceviamo dalla sua cura benevola.
“Lasciate che i bambini vengano a me (…): a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio” (Mc 10,14). I piccoli sono associati al Regno di cui sono via. La Signoria di Dio è nelle fragilità, fatto che dice una cosa seria: ci si autoesclude dal Regno di Dio ogni qualvolta prevale una mancanza di rispetto verso di loro. C’è una via privilegiata da Dio di manifestarsi. Non solo i piccoli vanno rispettati, ma vanno vissuti come condizione per entrare nell’Amore di Dio.
Ma vorrei stasera, in questa veglia di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, che ci prendessimo in carico anche i colpevoli di comportamenti abusanti. Per due motivi: prima di tutto perché può diventare pericoloso dimenticarli e abbandonarli a sé stessi, quasi fosse, questo atteggiamento, una forma sottile di isolare il male fuori di noi. Una forma di difesa, fondata sulla la convinzione che così ci proteggiamo. Invece anche queste persone vanno riconosciute come nostri fratelli, che hanno commesso qualcosa di gravissimo, di inaccettabile; ma rimangono tali. È nostro fratello Caino. Lo è Giuda. Ce l’ha testimoniato l’anno scorso Giuseppe, riconoscendo nel dolore i fratelli in terra di Egitto. Terra di dolore e di liberazione.
Il rispetto è condizione per non favorire azioni nelle quali attecchisce il comportamento abusante: rispetto per i drammi che si generano in chi è vittima; ma rispetto anche per guardare negli occhi chi si è macchiato di questi crimini, mantenendo con loro un legame che ce li fa riconoscere fratelli e sorelle.




