San Lazzaro
At 9,1-22 Mc 16,15-18
Si incrociano due Giubilei: quello ordinario della Chiesa e quello particolare per la famiglia Vincenziana. Oggi celebriamo una delle due date di fondazione, nella quale la famiglia vincenziana raccoglie una storia. La storia della carità. O meglio, una delle lunghe storie della Carità che è stata scritta da migliaia di uomini e donne consacrati sulla scia dell’intuizione originale e originaria di S. Vincenzo.
Rileggendo alcune note storiche sorprende che nel corso dei secoli la carità si sia estesa abbracciando una molteplicità di ambiti e di ambienti ecclesiali e umani: nata per la predicazione delle missioni nelle campagne (una sorta di nuova evangelizzazione o ri-evangelizzazione), si allargò alla formazione nei seminari, alle missioni estere, all’istruzione della gioventù. I Padri si accompagnarono così alle Figlie della Carità. L’opera si dedicò alla predicazione di ritiri, passando alla cura pastorale delle parrocchie, con una continua attenzione a porre al centro le fasce più deboli e povere.
La carità è dirompente, abbraccia tutto e sa declinarsi nelle varie situazioni dell’esistenza umana. Sa riconoscere le nuove sacche di povertà, ha il fiuto di ciò che è messo da parte e scova ciò che rimane nascosto ai più.
Mi sembra che la grande conversione della carità sia quella che Saulo vive nella sua pelle e che ci testimonia: riguarda la vista. Una cecità che gli impedisce di vedere e che viene guarita grazie all’essere preso per mano dai suoi compagni e condotto a riacquistare la vista. Nel racconto degli Atti, che la liturgia ci propone, l’azione dello Spirito (mediante l’imposizione delle mani di Anania) fa cadere come delle squame dagli occhi che libera la capacità di vedere. Quelle squame erano state causate da una vita religiosa: Saulo è uno stretto osservante della Legge ebraica. La conversione è sempre azione dello Spirito. Così l’inimicizia si trasforma in passione, in dedizione.
Dovremmo chiedere al Signore di quali conversioni alla carità ha bisogno la nostra fede e la nostra speranza. Chi non vede spesso è ignaro di ciò che lo circonda. Al più si rende conto di non riconoscere il volto di chi invoca. Per una cieca indifferenza. Questo vale per ogni discepolo del Signore. Vale per i membri della famiglia Vincenziana, vale per la nostra Chiesa e il nostro presbiterio. C’è una diffusa assuefazione ai poveri, alle membra più deboli dell’umanità al punto che non ci disturbano più. O se ci disturbano è perché sono motivo di insofferenza.
Non si tratta unicamente delle povertà materiali: pensiamo alle povertà delle fragilità crescenti e vicine a noi che chiedono la carità nella prossimità e nell’accoglienza. Nella sospensione del giudizio o della condanna. La povertà educativa ci riguarda e ci interpella, possiamo incrociarla quotidianamente dentro alle relazioni pastorali.
Che il Giubileo vincenziano della carità si possa sposare con quello della speranza: virtù sorelle che possono farci rinascere come loro figli e figlie. Se la speranza non delude, non da meno la carità, perché è sinonimo di fedeltà: di Dio prima di tutto per noi.




