Lc 15,1-3.11-32
Stasera siamo stati accolti in una casa-famiglia della comunità Giovanni XXIII. Casa e famiglia sono due termini che si richiamano: una casa non è solo un luogo fisico che raccoglie delle persone, è uno spazio accogliente nel quale qualcuno sta bene: come diciamo, si sente a casa!
Quante volte abbiamo ascoltato, pregato questa pagina del vangelo… a volte è una pagina che abbiamo vissuto anche noi.
Questa pagina del Vangelo sa tanto di casa e di famiglia. E non possiamo non stupirci che Gesù per parlare del Padre, per parlare del suo Amore misericordioso, per parlare di noi, del nostro modo di vivere la vita, per parlare delle relazioni umane quali relazioni fraterne, parli di una famiglia (anche se in realtà in questo caso manca la madre).
Gesù non inizia con i ragionamenti, ma con fatti di vita, con comportamenti che disorientano. Perciò deve illuminarli, deve farli parlare: in questo modo (fatti e parole) diventano rivelazione di Dio e di noi. Quanto di Dio c’è in mezzo a noi, nell’ordinarietà della vita, che si intreccia con situazioni anche dolorose. Con strappi. Con lontananze. Ma anche con cammini di riavvicinamento.
Allora è indispensabile unire le parole di Gesù al suo comportamento: “accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ce lo dice il vangelo che Gesù dice loro questa parabola: a chi? A chi lo avvicina (farisei e scribi) e a coloro che sono da Lui resi vicini (pubblicani e peccatori). Alla fine scopriamo che l’obiettivo di Gesù è che, attraverso di Lui, si avvicinino coloro che sono distanti. Gesù sembra preoccupato di far capire a chi è lontano che è molto più vicino di quello che possono immaginare e sperare (pubblicani e peccatori) e quelli che si credono vicini possono essere lontani dal cuore del Padre.
Gesù prende a prestito qualcosa che capita o può capitare anche a dei genitori: non tutti i figli sono uguali. Ma le scelte di qualcuno (o anche solo di un figlio) mette in crisi i genitori. Perché lui o lei si comporta così? Cosa ho sbagliato?
Il figlio minore – cosa che non aveva fatto il maggiore! – chiede una cosa inaudita: la sua parte di eredità. Noi sappiamo che si diventa eredi quando il padre muore. Nella sua richiesta è come se vedesse (e volesse) il padre già morto! Ma tale pretesa è inaudita anche perché pretende ciò di cui il figlio minore non ha diritto. Perché il patrimonio è destinato al maggiore.
E il padre “divise tra loro le sue sostanze” (= la sua vita, i suoi beni). In questa decisione, raccolta in un semplice quanto drammatico gesto, il padre accetta di morire agli occhi del figlio minore (ci viene detto che per essere generativo un genitore deve accettare di morire) e pone un grande (non ultimo) segno del suo amore gratuito. In quella casa non regna il diritto (“dammi quello che mi spetta”) ma l’eccedenza, la sovrabbondanza dell’amore.
Questa casa è abitata dall’amore gratuito, che non è sotto la legge del diritto, della pretesa, della rivendicazione. Anche quando esso è minacciato e non è riconosciuto, anche allora l’amore è il padrone di casa.
Dopo qualche giorno questo figlio “partì per un paese lontano”. Il verbo che viene usato è lo stesso che un po’ più avanti è usato quando un tale, piantata la vigna, la lascia in mano ai contadini e, ci è detto, “se ne andò lontano per molto tempo” (Lc 20,9). La sua non è una scomparsa, perché il verbo usato dice che è una assenza, anche lunga ma che prevede un ritorno. Non è l’intenzione del figlio, ma la certezza del cuore del padre.
L’amore di un genitore per i figli, anche quando sbagliano, sembra ubriacare, obnubilare la vista. Ma si comprende nell’ordine dell’amore. Tanto più se noi lo mettiamo insieme all’amore di Dio per noi!
Quando è lontano (da casa), cioè fuori dagli occhi del genitore e quindi fuori da chi ti richiamano chi sei e il valore di ciò che hai ricevuto (non ti appartengono i beni), sperpera, dissipa ogni cosa. La situazione mostra tutta la drammaticità di quel comportamento perché con i beni ha perso anche le relazioni. È solo e non c’era “nessuno che gli dava nulla”. Al contrario del pensiero diffuso, quando agiamo, noi decidiamo di noi. Non si può recuperare un bel niente, non si può riparare il male fatto: quello che è fatto è fatto, quello che gli era stato dato è andato in fumo.
Il pensiero che lo spinge a tornare è ancora nell’ordine dell’interesse: non c’è nessuna conversione, diremmo noi. Pensa al suo interesse: “io qui muoio di fame”, a differenza di ciò che capita nella casa di mio padre. È triste sapere che neanche in quel momento pensi all’amore del padre che gli ha dato tutto. Che si è spogliato della sua vita. Ma quella casa è agli occhi del figlio la“casa del pane in abbondanza”. C’è un pane da spezzare per la fame di tutti coloro che bussano alla porta. Figli o estranei, figli o servi.
È diffuso l’idea che ci sia una specie di possibilità di riavvolgere il nastro, di riprendere da capo la partita… come se niente fosse. (cfr omelia del funerale dei quattro giovani)
Questo figlio era stato spinto ad allontanarsi da quella casa perché sognava altrove la pienezza della sua libertà e della sua vita. Lontano da quel padre. In ogni caso senza dover fare i conti con il fratello, che è un concorrente al suo ‘diritto’.
La scena del ritorno, del ri-avvicinamento, ha un’accelerazione quando il padre lo vide, mentre era ancora lontano: “gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. Quella casa non ha un recinto, perché diventa casa accogliente anche fuori del suo perimetro: nella distanza colmata dalla corsa del padre. È casa dove non sono sostenibili le distanze (papa Francesco ricorda alle coppie di sposi che non ci si addormenta senza prima chiedersi scusa!). Certo sorprende lo scatto del padre (che non è della sua età!), ma non dobbiamo trascurare il tratto di strada percorso anche dal figlio minore. Era la strada che da solo poteva fare. È bello pensare che un pezzo di strada del ritorno padre e figlio la fanno insieme, uno a fianco dell’altro, gustando un po’ alla volta il ritrovamento dell’altro: il padre ritrova il figlio e il figlio ritrova il padre. Una conversione reciproca, uno verso l’altro.
E quando entra in casa il figlio minore scopre di essere riconsegnato alla sua dignità di figlio. Non perché se lo merita, né tanto meno perché è degno. L’amore del padre (che è amore misericordioso) gli apre un futuro, la possibilità di rigiocarsi da figlio (perdonato e salvato dal baratro del vivere da orfano o da patricida). Quella casa diventa la casa della misericordia, vale a dire la casa di un futuro aperto gratuitamente.
A casa, in famiglia, a immagine dell’amore che c’è all’origine e di cui gli sposi sono sacramento, si può vivere l’amore che rigenera, il perdono che apre una nuova opportunità di fiducia, di speranza.
Purtroppo la parabola non è a lieto fine: manca un pezzo. Il figlio maggiore che incarna tutte le buone ragioni della logica umana della giustizia. Che mostra di stare in casa rispettando tutte le regole, ma che non riconosce neanche lui al padre quell’amore che ha sorpreso il fratello minore. Mostra il risentimento verso il fratello, al punto che non lo riconosce più tale (“tuo figlio”). C’è un malcelato rimprovero al padre, al quale vorrebbe insegnare come fare il genitore. Non è semplice entrare nella casa della misericordia a chi rivendica (anche lui) al padre di non aver ricevuto ciò che era dovuto (“non ti ho mai disobbedito” (…) “non mi hai mai dato un capretto”). La risposta del padre è raccolta in quel “sempre”: “tu sei sempre con me”.
La casa è ancora in questa situazione di sospensione, in attesa che il padre possa rientrare con il figlio maggiore, arreso alle sue ragioni. Allora questa casa è anche casa della fraternità in attesa del comporsi completamente. Casa della fraternità da ritrovare nel perdono.




