Lc 9,28-36

Questo episodio della vita di Gesù è al centro del cammino di Gesù e dei suoi discepoli. Egli ha appena annunciato (per la prima volta) la meta del loro viaggio: Gerusalemme, dove Lui deve soffrire molto, essere rifiutato e ucciso e risorgere il terzo giorno. Non bastasse, Gesù fa seguire l’esigenza della croce per i suoi discepoli (“se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”). Cosa dite? Possiamo immaginare quale possa essere stato il loro stato d’animo.

Otto giorni dopo accade questo episodio. Non ci è dato di sapere cosa si sia mosso nel cuore e nella mente dei discepoli in quegli otto giorni rispetto a ciò che Gesù aveva prospettato. Gli altri sinottici ce lo attestano: sconcerto e incomprensione. Si mettono a discutere di altro, in un certo modo per allontanare il pensiero. Reazione direi diffusa: impegniamo la testa su altre cose. “Forse non abbiamo capito bene…” o “chissà cosa voleva veramente dire il maestro…”.

Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e sale con loro sul monte a pregare. Altre volte Gesù si ritira da solo, in un luogo solitario a pregare. Qui invece cerca compagnia, sembra voglia preparare qualcuno dei suoi a stargli più vicino. Li vuole rende partecipi della sua relazione con il Padre. Cerca di costruire una relazione familiare: fare insieme un’esperienza di fede. E questa sua scelta dice che cosa ci rende veramente e profondamente familiari: introdurre qualcuno nello spazio più intimo di una persona. Cioè nella relazione con il Padre. In questo modo Gesù vuole rendere più forti i suoi amici.

La relazione tra Gesù (il Figlio) e il Padre è qualcosa di singolare, possiamo dire di inaccessibile, eppure Gesù rende partecipi i tre apostoli della sua esperienza. Notiamo: non tutti. Solo alcuni (cosa che farà anche in seguito).

La relazione che Gesù ha con il Padre (anche la nostra, oltre che la Sua) è molto intima, perché va al cuore di ciò che noi siamo. Tanto è vero che più o meno tutti abbiamo pudore nel manifestare quello che viviamo nella preghiera. La custodiamo, la proteggiamo. C’è, appunto, un pudore che la difende. A volte eccessivo. Ma in una coppia si può permettere all’altro/a di entrare in questa intimità? O meglio: non si deve aprire questo spazio all’altro perché mi veda e quindi mi guardi in modo diverso? Ogni coppia cristiana dovrebbe chiedersi: riusciamo a condividere la nostra relazione con il Padre? Senza pudore? Se invece non succede, perché? Quali sono i motivi?

Cosa accade mentre guardano Gesù in preghiera? Il suo volto viene trasfigurato: lo vedono in modo diverso. Osservare, guardare qualcuno nella sua relazione con Dio-Padre trasforma il nostro modo di conoscere l’altro e di guardarlo in seguito. Ad es.: se guardo i miei figli a partire da me, dai miei progetti su di loro, dalle mie aspettative sul loro futuro, non è la stessa cosa che guardarli a partire dalla loro relazione con il Padre. Posso riconoscerlo come figlio suo, come figlia sua. Allora non sarò preoccupato (tanto o poco) che corrispondono alle mie aspettative, ma che scoprano la loro vocazione; che imparino ad accogliere la volontà di Dio. L’educazione sarà in questo caso il testimoniare, prima di tutto, l’amore unico e singolare che Dio-Padre ha per ciascuno, nella sua unicità. Quando questo avviene, i miei figli, i nostri figli saranno splendidi non perché sono miei, ma perché sono figli di Dio.

Proprio questo accade: il volto (vale a dire ciò che uno è davanti ai miei occhi) cambia. Lo guardo, lo guardiamo con occhi e cuore diversi. E questo vale anche tra voi sposi… Tu non devi rispondere a me, ma a Colui che ci ha fatti incontrare nell’amore.

E la voce che alla fine della scena risuona dice proprio quello che avevano intuito: “Questi è il Figlio mio, l’eletto”. Non è rivolta a Gesù, ma ai discepoli, perché loro entrino in questa nuova prospettiva. Questo Figlio è scelto, è chiamato: la sua identità è custodita dal Signore e verrà alla luce dentro alla sua risposta a questa elezione, dentro alla sua vocazione. Questo diventerà la preoccupazione per un genitore: aiutarlo a discernere quale essa sia.

Ecco lo stupore, la meraviglia provata dai discepoli, nel guardare Gesù con occhi nuovi, Quando chi ci è vicino, nonostante la familiarità che c’è con noi, appare in modo diverso, si abbatte l’ovvio, lo scontato. Questa sorpresa ci cattura: c’è molto di più in Gesù che pensavamo di conoscere bene. Allora accade che ci stupiamo della bellezza dell’altro (cfr. l’esperienza di stupore e di gioia di Adamo di fronte ad Eva, è descritta l’emozione dell’innamoramento). Non è quello che esprimiamo quando diciamo: “Ti mangerei!”, “vieni che ti stringo forte, per sentirti unito a me”?

Quella dei discepoli è anche l’esperienza che, mi auguro, un po’ tutti abbiamo vissuto almeno qualche volta: in un ritiro, in un camposcuola, in un momento di preghiera, in una messa… oppure nell’esperienza dell’innamoramento, il giorno del matrimonio o quando si è scoperto di essere in attesa di un figlio, il momento della nascita… Quel momento è stato così bello che avremmo voluto fissarlo, imbalsamarlo. È spontaneo voler trattenere le cose belle, le esperienze entusiasmanti. Fermare il mondo. Fermare il tempo… Invece tutto svanisce: rimane Gesù solo, quello che conoscevano. La vita è, per Gesù e per noi, un esodo. Un cammino che prevede un lasciare, un distacco per raggiungere o incontrare una promessa.

Il Tabor, il monte della trasfigurazione, come era stato il monte Sinai per il popolo d’Israele, sono luoghi/momenti che ci permettono di ripartire, di continuare a coltivare il desiderio di giungere alla Pasqua.

Custodiamo i nostri ‘Tabor’ per non fermarci sfiduciati. Il Signore ci fa intravvedere cosa ci attende: quella felicità che qui è solo assaporata. Per qualche momento. Ma non per questo  meno intensa e carica.