Nostra Signora di Lourdes
V° anniversario Pandemia

Is 66,10-14

Gal 4,4-7

Gv 2,1-11

Così abituati a voltare pagina, ad archiviare o rimuovere le pagini più tristi, a cavalcare il motto: “bisogna andare avanti…”, avremmo potuto far passare sotto silenzio i cinque anni dall’inizio del Covid. Siamo stati messi alla prova da un evento, singolarmente, comunitariamente, addirittura a  livello planetario.  Come non eravamo abituati. Un virus ha messo in ginocchio l’intero ingranaggio mondiale.

Noi, abituati invece a far memoria, con l’auspicio di lasciarci ammaestrare dalla storia, che è maestra di vita, vogliamo ricordare. Iniziamo un percorso fatto di tappe con questa celebrazione eucaristica nella Giornata del malato, scelta nella memoria liturgica della Madonna di Lourdes. Perché in questo giorno la malattia è associata alla cura, il malato a chi si dedica professionalmente ed appassionatamente all’accompagnamento di chi è segnato nel corpo dalla infermità. Più o meno grave.

Questo sì ce l’ha reso evidente la stagione della pandemia: che la cura (anche quando i casi sembrano incurabili) è al centro di una società. In quei giorni la cura è diventata di tutti per tutti. Al di là delle polemiche, magari ancora latenti, sulle scelte messe in campo, si impose la consapevolezza che la salute dell’altro era la mia ed eravamo consegnati responsabilmente gli uni agli altri.

Se a qualcuno è affidato il compito dell’azione professionale, la fragilità è in carico a tutti. Anche quella dell’operatore sanitario. E’ tristemente drammatico assistere alla caduta rovinosa degli dei, degli eroi di un giorno (i sanitari), risucchiati rapidamente nell’agone violento della pretesa e del delirio di immortalità. Abbiamo vissuto mesi dentro alla coscienza che ciascuno era una possibile vittima di questo nemico invisibile. Ma sotto scacco di un virus impercettibile ben presto  siamo ritornati nell’illusione di essere invincibili.

Siamo qui a ricordare giorni drammatici: appena arrivato a Piacenza mi è stato evocato il silenzio in cui era avvolta la città, squarciato dal suono inquietante delle sirene. Un suono che diventava voce di chi era colpito e dei suoi cari. Facciamo memoria delle vittime e qui, in questa chiesa, non possiamo dimenticare con don Paolo tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose defunti. Come pure i tanti fratelli e sorelle strappati alla comunità e agli affetti familiari.

Ma nello stesso tempo è  il ricordo di giorni di grande solidarietà, di una prossimità altrettanto contagiosa. E’ pur vero che quei giorni/settimane/mesi sono associati all’angoscia, ma sarebbe riduttivo se dimenticassimo i cammini di prossimità e i gesti di dedizione generati nella stagione dei distanziamenti. La distanza imposta è stata vinta da una vicinanza diffusa.

Il profeta Isaia ci ha annunciato che Gerusalemme, città del lutto, è diventata una madre che allatta con le consolazioni. Il termine ‘Consolazione’ ha con sé la certezza che la solitudine è motivo di vicinanza. La consolazione è un atto del quale siamo oggetto e di cui siamo soggetti. Una stagione, quella della pandemia, che ci consegna la responsabilità che nasce dall’esperienza della fragilità, non come condizione di qualcuno, né di un momento passeggero, bensì come quel tratto che ci fa essere invocazione, mano tesa, preghiera, custodia. Se c’è una schiavitù oggi che ci imprigiona è proprio quella della paura e della pretesa. I nuovi virus da combattere con il vaccino della figliolanza e della fraternità.

In questo giorno di memoria, nel quale la malattia è posta al centro della nostra attenzione, cresca, con la gratitudine verso chi della cura ha fatto una professione, la volontà di essere figli di quel tempo che può rigenerare le relazioni sociali e civili e la qualità della nostra vita. Non è scontato che la lezione sia stata appresa. Siamo davvero cambiati? Una domanda che non può essere rimossa. Perché la sofferenza non sia stata vana. Rinchiusa in un brutto sogno.