Ap 7,2-4.9-14

1Gv 3,1-3

Mt 5,1-12a

La solennità che stiamo celebrando è al cuore della nostra fede. Prova ne sia che uno degli articoli di fede del simbolo apostolico riguarda proprio “la comunione dei santi”. La Chiesa fin dall’inizio ha ritenuto che qui ci fosse un aspetto qualificante la nostra fede: uno dei paletti (diremmo) oltre i quali noi ci allontaniamo dall’autentica fede apostolica. Qualora noi facessimo fatica a comprendere questi ‘capitoli’ della fede, siamo moralmente impegnati ad approfondirli, non a scartarli.

Infatti, dire che oggi siamo un po’ tiepidi verso questo contenuto della fede è un po’ riduttivo. Di sicuro la poca considerazione data alla comunione dei santi è collegata alla visione intramondana/intraterrena dell’esistenza. Se tutto si esaurisce qui, ciò che richiama l’oltre (il presente o la morte) non ha alcun interesse e non è di nessun rilievo. La comunione dei santi è strettamente collegata alla fede nella Risurrezione di Gesù (e quindi nostra). È l’irrompere proprio di un oltre, dell’imprevedibile.

Credere la comunione dei santi è affermare che noi viviamo di legami. In particolare ci viene ricordato che viviamo di legami buoni, di legami che ci sostengono nel cammino di discepolato, non solo perché esemplari, ma anche perché in essi c’è una grazia all’opera. I santi alimentano il desiderio di seguire Gesù, perché confermano che è possibile.

La mentalità individualistica che ci avvolge tende a ridurre i legami al livello strumentale: li valutiamo se ci servono, se mi servono. Ora, quello che la comunione dei santi afferma è ancora di più: i legami oltre che orizzontali, sono anche verticali. Vale a dire che ora manteniamo dei rapporti con coloro che ci hanno preceduto e (dobbiamo aggiungere) con coloro che ci seguiranno.

Siccome la santità rimane, perché è in Dio (si veda la visione presentata dal testo dell’Apocalisse), essa rimane anche in relazione a noi. Nel senso che la grazia presente in loro ci coinvolge, ci raggiunge. Quando diciamo, ad es., che l’indulgenza (che riguarda la pena collegata alla colpa commessa) attinge al tesoro di grazia della Chiesa, diciamo proprio questo: che la fedeltà vissuta dai santi ha la forza di farci superare le conseguenze in noi delle nostre colpe commesse. E una via per riceverla è proprio l’intercessione dei santi e il nostro ricorrere a loro.

Ma la santità che la nostra esistenza riuscirà ad esprimere sarà a vantaggio anche di chi viene dopo di noi. Non solo il male che commettiamo si prolunga oltre a noi, ma la stessa vita di grazia sarà a beneficio dei nostri fratelli. Quindi credere la comunione dei santi è affermare il legame che anche le nostre scelte, la nostra vita credente ha oltre la nostra percezione.

Questo ‘articolo’ (tradizionalmente si chiama così) della nostra fede, porta con sé un aspetto molto concreto per la visione della esistenza: noi non siamo, né possiamo pensarci soli nel cammino di discepolato. L’isolamento è frutto del peccato. Allora pensarci dentro al cammino di un popolo di credenti-santi non significa negare in loro anche una vicenda di peccati. Nessuna persona, neanche i santi canonizzati sono privi di infedeltà. Ma quello che fa la differenza è la qualità della fede: il saper ritornare tenacemente ad attingere alla misericordia di Dio Padre. Proprio in quanto figli e figlie che sono certi che la loro condizione è custodita dal Padre, non dalla loro bravura.

Anche per questo la comunione dei santi, guardata con realismo, ci permette di superare quella visione “impossibile”, irraggiungibile di santità. “Io santo? Assolutamente, io sono peccatore”. Mettendo in atto una esclusione a priori. Cerchiamo invece di recuperare uno sguardo realistico dei santi: sono tutti segnati dall’umana fragilità. Ma questo non ha impedito loro di lasciare operare la grazia. Qui sta la santità.

Parlando con una persona, a mo’ di battuta, questa mi diceva: senz’altro il mio lavoro è di aiuto alla mia santificazione. Qualcuno lo direbbe per il proprio matrimonio o per il proprio ministero… Questo è vero: la santità, con la qualità di carità, di fede e di speranza, ha il suo ambiente di grazia nel contesto in cui viviamo, nelle persone che ci sono accanto, nei servizi che ci sono richiesti… Perché lì noi siamo chiamati a rinnovare la nostra fede (nell’affidamento al Signore, nel riconoscere una fraternità che spesso non è affinità caratteriale…); a maturare la speranza e la fiducia in un futuro che sembra impossibile; a crescere in carità, in un amore gratuito che chiede di morire a noi stessi.

Anche le situazioni che possono farci patire, le persone che suscitano in noi rifiuto e avversione, la sofferenza causata dall’ ingiustizia possono diventare i luoghi dove risuona la nostra beatitudine. “Beati voi…”. E in quel luogo esistenziale ci raggiunge Gesù con il suo annuncio, capace di aprire un futuro insperato e inatteso.